PUNITI PERCHÉ INNOCENTI

A cura di: Pasquale Quarantawww.culturagay.it, 13 febbraio 2008

Arrusi catanesi al confino nell’Italia fascista. Relazione per il Corso di Studi Culturali e studi gay, cattedra di Teoria della Letteratura, prof. Francesco Gnerre, Laurea Specialistica in Editoria, Comunicazione multimediale e Giornalismo, Università di Roma Tor Vergata, A. A. 2007/2008.

Sotto il fascismo decine di ragazzi catanesi vennero arrestati, schedati dal Ministero dell’Interno e confinati nell’isola di San Domino delle Tremiti. Perché colpevoli di essere attratti eroticamente dai masculi, ovvero dagli uomini che, nella psicologia omo-erotica e nell’immaginario siciliano del 1939, assumevano nel rapporto sessuale un ruolo esclusivamente attivo (o insertivo). I ragazzi catanesi che assumevano un ruolo passivo (o ricettivo) venivano chiamati arrusi.
Erano perlopiù operai, sarti, contadini, impiegati, qualche insegnante e parecchi analfabeti. Tra gli stessi arrusi era inconcepibile stabilire relazioni d’amore a motivo dell’incompatibilità sessuale, della dicotomia maschio-femmina che per primi essi stessi avevano interiorizzato, e a motivo del ruolo sociale.
I masculi semplicemente celavano le loro inclinazioni, erano cittadini più integrati: “Niente travestimenti, nessuna assunzione pubblica del ruolo omosessuale” (p. 212). Anche gli arrusi, tuttavia, avevano interiorizzato la cultura omofoba di quegli anni che considerava la condizione omosessuale un “apparire ‘così’, più ancora che nell’esserlo: quindi meglio non apparire troppo” (p. 214); un intreccio di amor proprio e odio di sé, orgoglio e omofobia interiorizzata.
Alla luce di queste considerazioni, comprendiamo il senso delle parole nel ricordo di uno dei confinati: “Io non mi sono fatto mai capire dalla gente, anzi mi hanno fatto e mi fanno schifo quelli che si fanno capire” (p. 214).
Come non pensare ai tanti omosessuali moderni che vivono ancora oggi le loro relazioni con quella stessa mentalità, e che si dichiarano ostinatamente contro il coming out in famiglia, o nella comitiva di amici, o sul posto di lavoro?
Come non pensare ai tanti omosessuali che si dichiarano contro la marcia del Gay Pride, contro i matrimoni e le adozioni gay?
È la cultura della vergogna di sé e della mancanza di autostima che si radica ancora in molti omosessuali, quella cultura che considera l’omosessualità unicamente come pratica di meri atti sessuali.
Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti hanno ricostruito, a partire dalle testimonianze di due confinati e da una meticolosa indagine su fonti d’archivio, gli appuntamenti in spiaggia di notte, le sale da ballo per soli uomini, le rivalità tra arrusi, i travestimenti, la fame e la miseria, le lettere scritte (invano) dalle loro famiglie per rivendicare l’innocenza dei propri figli e permettere loro di guadagnarsi la libertà. “Insomma un mondo – dicono gli autori – che sembrava scomparso nel nulla”.
Ne esce fuori un’Italia tenera e spietata, in cui gli arrusi sono scherniti di giorno e cercati di notte dai masculi, i quali non si ritengono omosessuali. Perché non è l’atto sessuale a creare l’orientamento, chiaro. Tuttavia, però, non può tacersi il fatto che, all’indomani delle leggi razziali volte a preservare “l’integrità della stirpe”, se una persona fosse stata davvero omosessuale avrebbe avuto i suoi buoni motivi per limitarsi alla pratica di atti sessuali, e magari sposarsi, mettendo su famiglia, per spazzare via ogni sospetto sul proprio orientamento sessuale.
La città e l’isola è una storia che “manca di sfondi” (p. 11) recuperati abilmente da una penna magica che scrive del silenzio a cui contribuivano le stesse vittime, dal momento che “confinat

PUNITI PERCHÉ INNOCENTI
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