A cura di: Matteo Berardini
“Io sono come Cristoforo Colombo. Me ne sto lì sulla riva, e sogno. E, come il mio compatriota, mi riporteranno indietro in catene. Ma amo la mia vita.”
John Fante, lo scrittore scomparso. Come altri autori italo-americani, Fante è uno scrittore oggetto di una vera e propria riscoperta a pochi anni dalla sua morte, ma che per la maggior parte della sua vita ha trovato di che vivere con altre attività, in questo caso la collaborazione con Hollywood. Sprone di questa riscoperta fu Charles Bukowski, che rimase tanto folgorato da questo autore dal ricattare il proprio editore, minacciando di non consegnare il suo nuovo lavoro se questi non si fosse impegnato a ristampare l’opera di quello che ormai considerava il suo maestro.
Primo di quattro fratelli, John Fante nasce nel ’09 da genitori immigrati nella grande America; il padre, Nick Fante, è un muratore originario di Torricella Peligna, un paesino dell’Abruzzo, mentre la madre, Maria Capoluongo, nasce a Chicago ma è di origini lucane. Entrambi i genitori rivestiranno un ruolo fondamentale nella produzione di Fante, fin dall’inizi: il padre troverà una sua ambigua immortalità in una serie di personaggi alcolisti, giocatori impenitenti, violenti e saturnini, la forte devozione della madre invece è all’origine della religiosità complessa che affligge molti dei personaggi del figlio, sopra tutti Arturo Bandini.
La giovinezza di Fante non è facile, la povertà e i continui dissapori con il padre lo portano a lasciare la famiglia per tentare la fortuna nell’agognata Los Angeles, dove arriva nel ’30. Qui, dopo essersi iscritto all’università, si avvicina seriamente alla scrittura, riuscendo anche a pubblicare qualche racconto. Nel frattempo viene raggiunto dalla madre e dai fratelli, abbandonati dal padre per un’altra donna, e per mantenerli deve iniziare a fare una serie di lavori precari, accompagnati sempre da qualche pubblicazione, soprattutto sulla rivista American Mercury.
Nel 1936 tenta di far pubblicare il suo primo romanzo, nonché primo capitolo della saga autobiografica dell’aspirante scrittore Arturo Bandini, “La strada per Los Angeles”, ma le risposte degli editori sono tutte negative, compresa quella del suo mentore, il critico H. L. Mencken. In conseguenza di questo primo rifiuto Fante inizia la sua lunga collaborazione con Hollywood in veste di sceneggiatore, un lavoro che non amerà mai ma che comunque gli porterà discreti guadagni. Ma lo scrittore non demorde, e infatti nel ’37 riesce a pubblicare un altro suo romanzo, “Aspetta primavera, Bandini”.
Entrambe le opere, come gran parte del lavoro futuro, sono fortemente autobiografiche, incentrare sulla figura dell’italo-americano Bandini, prima seguito a Los Angeles, tra lavori giornalieri e aspirazioni da grande scrittore, poi raccontato nella sua infanzia nel Colorado, appesantita dalla povertà e dal padre alcolista. “Aspetta primavera” però contiene quasi un’anomalia stilistica in rapporto a tutta la futura produzione dello scrittore, e cioè l’uso della terza persona. Infatti Fante ricorrerà per la maggior parte alla prima persona, l’estensione ideale del suo approccio autobiografico, il registro più congeniale al suo felice equilibrio di comico e patetico, con rare e intelligenti incursioni nel tragico.
Riprende non a caso questa scelta stilistica nel suo romanzo successivo, quello che verrà considerato il suo capolavoro, “Chiedi alla Polvere”, uscito nel ’39, nel pieno di una vera e propria stagione d’oro per lo scrittore, che si concluderà nel ‘41 con la pubblicazione della raccolta di splendidi racconti “Dago Red”.
“Ask the Dust” è il libro che fece pronunciare a Bukowski la famosa frase “Fante era il mio Dio”, il libro che rubò dalla biblioteca pubblica pur di tenerlo sempre con sé, cosa non da poco, c’è da convenirne. L’opera è la storia di 3 giovani ventenni, come ci invoglia a vederli