A cura di: Silvia Lauretti
“Sono in fuga dal secolo scorso, da ventidue anni. Mi basta cliccare sui siti dei giornali italiani per trovare buone ragioni per continuare a correre” (Cesare Poppi, laureato in Antropologia culturale, oggi insegnante di antropologia dell’arte africana a Norwick, in Inghilterra).
Negli ultimi tempi, in Italia, si sente sempre più spesso parlare di “Fuga dei cervelli”, espressione con la quale si intende indicare il fenomeno dell’emigrazione di giovani neo laureati di talento o di individui ad alta specializzazione professionale verso paesi stranieri. Il termine si utilizza prevalentemente con un’accezione negativa e seppure gli aspetti svantaggiosi siano tanti e da tempo sotto i nostri occhi, per cominciare, può essere interessante analizzare anche quei lati positivi che il fenomeno presenta.
La “fuga di cervelli” non è in sé negativa dal momento che la mobilità di studiosi e ricercatori è sin dagli albori delle università uno dei principi fondamentali della tradizione intellettuale europea e un fattore importante di arricchimento culturale e professionale (lo stesso termine università indicava le comunità di studenti di diversi paesi).
Durante il medioevo l’Europa era attraversata dai cosiddetti clerici vagantes: chierici erranti che viaggiavano tra i centri culturali europei, permettendo la circolazione e lo scambio di nuove idee e diventati, dunque, dei veri e propri “vettori di cultura”. Uno spirito vagans che rivive ora su scala paneuropea grazie a programmi di scambi di successo come l’Erasmus. Mai come oggi, del resto, vivere all’estero è stato popolare e diffuso.
In quest’ottica il movimento di studenti e cittadini europei può essere considerato un mezzo utile per rendere l’Europa più unita e più competitiva dal punto di vista culturale ed economico.
Inoltre, di per sé, il fatto che i ricercatori italiani desiderino andare all’estero e vincano concorsi in tutti i paesi più avanzati è un dato confortante, dal momento che lì, nella maggior parte dei casi, i ricercatori vengono scelti in base al curriculum e non per conoscenze. Ciò vuol dire che la formazione che si riceve in Italia è buona e che i giovani ricercatori sono dinamici, intraprendenti e nutrono una passione tale per il proprio lavoro da essere pronti a emigrare pur di condurre le loro ricerche nelle migliori condizioni.
Ma se altrove i talenti vengono spinti a girare il mondo (negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia), in virtù dell’idea che il giovane studioso, durante la sua formazione, debba entrare in contatto con il maggior numero possibile di persone, metodi, idee, con l´obiettivo di diventare autonomo, in Italia avviene l’esatto contrario.
Nonostante ciò il fenomeno dell’emigrazione dei giovani ricercatori italiani ha raggiunto proporzioni rilevanti e il saldo tra studiosi che lasciano il paese e stranieri che vi si trasferiscono è sfavorevole, in quanto la ricerca è sottofinanziata e i fondi sono limitati e mal gestiti. Veniamo, così, agli aspetti più noti e negativi della ‘fuga dei cervelli’.
La maggior parte dei studiosi italiani che decidono di recarsi all’estero sono spinti dalla necessità di sfuggire ai mali propri dell´Università italiana – quali baronie, nepotismi e clientelismi, che rendono le procedure di reclutamento e di carriera poco trasparenti – e per le scarse opportunità economiche offerte dal proprio paese.
Molti si allontanano dall’Italia a causa della mancanza di sbocchi professionali, molti perché il posto di lavoro già lo hanno, ma cercano qualcosa di più. Questi ricercatori italiani vengono assorbiti in gran parte da USA, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Francia, Canada. Quelli che ritornano sono pochi semplicemente perché questi paesi offrono condizioni di lavoro molto superiori.
In realtà l´Italia investe nel preparare i cervelli e lo fa in un modo abbastanza adeguato, ma poi lascia che molti di essi vadano a